venerdì 29 ottobre 2010

Noia


A mio padre.


Arriva prevedibilmente puntuale, calda di sole umida di pioggia.
Ne sento il presagio nell'aria. Umore amaro e riconoscibile.
«Chi sei, figlia?» Le chiedo. Quasi per gioco, quasi per noia.
«Oggi sono noia» Mi risponde.
«Accomodati, ti aspettavo».
Entra nella stanza, scirocco del deserto, afa padana.
Chiudo il libro che stavo leggendo.
Siede e tace come un amico che viene da lontano ma non ha niente da raccontare.
Presenza familiare ma muta.
Assenza. Specchio.
«Cosa fai qui se non hai niente da dirmi?»
«Aspetto. Come sempre, papà».
«Cosa aspetti?»
«Che tu viva».
Osservo i fiori sul suo vestito sbiadito. Gialli, spenti. Per lei sono ornamento, per me un inno ad ogni fine.
Mi chiedo perché abbia scelto proprio quell'abito. Tento di immaginarla di fronte all'armadio mentre pensierosa scorre le dita tra le stoffe, estrae l'abito e lo indossa. Buffa parodia di primavera.
Passa qualche istante. Sospensione fresca, onniscienza.
«Sono qui» mi dice «per raccontarti degli anni che corrono come lucertole di cortile, del tuo tempo speso a contemplarle senza tendere la mano per afferrarne la coda, senza stringere nel pugno un qualche senso caldo, rettile.
I tuoi giorni si sciolgono al sole e tu ancora non ne senti il calore. Voglio cantarti delle nostre città affollate, delle strade che vivono di toni stranieri e lingue vagabonde, come sinfonie d'organo. Canti zingari. Danze balcaniche. Voglio raccontarti di mercati, di profumi, di fruscio di dita sulle stoffe, delle urla gabbiano dei venditori. Voglio parlarti della nostra gente forte, di terra e di lavoro, di torrente, montagne e barricate. Di vino rosso e arie d'opera.
Voglio dirti ancora di pietre e di radio, di bandiere e di idee, di vent'anni, di me...».
Interrompo con uno sguardo il fluire doloroso delle immagini. Sono aghi.
«Conosco queste cose, sono stato giovane e le ho vissute. Ora il tempo è un sacco da riempire, sempre troppo vuoto e troppo pesante».
«Sei un vecchio albero di sole radici ancorato alla terra. Certo sei saggio e conosci tutte le cose, ma non le ami più, e se non le ami non le respiri. Se non lasci che siano il tuo ossigeno non muoverai un passo».
Mentre mi risponde resta immobile come fosse oracolo di saggezza antica, atavica.
Ride. Acqua che sgorga dalle rocce. Biblica.
Sono condannato da un giovane vestito liso, a fiori gialli.
Le offro un caffè silenzioso, le chiedo dell'università e degli esami.
Esce come è entrata, volteggiando con noncuranza.
Resta un suono opaco di sandali di cuoio.
Apro la finestra e riprendo a leggere.
«Quel libro vorrebbe parlare di vita ma lo fa senza amore, come te.» direbbe lei.
Dal negozio sulla strada salgono voci ed un profumo speziato di carne arrosto.
Carne halal. Un piacere permesso, sacro.
L'arabo del venditore mi ricorda il deserto che non ho mai visto,i lunghi passi beduini.
Penso ai miei passi, alle distanze che non so più coprire nemmeno in sogno.
Poi la immagino camminare per la strada. L'orlo del vestito accarezza l'asfalto, quasi a conquistare ogni luogo su cui danza, ogni lembo di vita che attraversa.
Spazio e movimento sono per lei due dimensioni ancora totalmente spontanee. Esigenze.
L'aroma si leva dal negozio come fumo sacrificale. Omaggio ad una divinità nomade di tende e di sabbia, di spazi e tempi eterni.
Mi inebria.
Inspiro profondamente e mi alzo.
Mi sembra quasi di odorare la vita.

Pia

Mia nonna mi ha insegnato
come tenere la schiena dritta
e portare i pesi in equilibrio sull'anima.
Se l'autoindulgenza non fa le ossa buone
il vino rosso fa il sangue forte.

Un viaggio

Un viaggio è un albero
fitto
di punti interrogativi,
che li vedi
che li segui
che ne perdi le radici.
Poi le cerchi e le ritrovi,
e da radici sono ombra,

che è riposo finalmente
che è respiro.

mercoledì 29 settembre 2010

Liberaci

O Dio,
liberaci dall'affamato
che cresce affamato,
e dal sazio
che cresce orgoglioso.

Racconti e naufragi . Quattro.

Sto vivendo come un animale.
Ma non sono altrettanto libero.

H.

Racconti e naufragi . Tre

Vivere in questo paese,
se non sei italiano,
è come non avere le mani.
Non puoi fare niente,
né muoverti
né lavorare.
Sei costretto a sentirti malato.

H.

Alda

Se scrivessi per vivere
non arriverei a Natale.

Racconti e naufragi . Due

E' molto freddo l'asfalto
a febbraio.
Non so bene se si dorme
o si sviene.
Comunque sia
ci si sveglia immobili,
crisalidi di gelo e illusioni
con i desideri ibernati.

Racconti e naufragi . Uno

Cento euro al mese
per una stanza buia
senza finestre.
Parma è fuori.
Parma non lo sa.
Parma è seduta al sole
e ordina un caffè.

Non c'è altro Dio all'infuori del mondo,
di questo nodo che pulsa,
che mi stringe e mi perde.
Non c'è altro Dio all'infuori del vento
che corre dal mio orecchio,
che abbraccia corpi, rocce, acqua, sale.
Non c'è altra preghiera
che io riesca a comporre.

La strada verso Dingle

Non so ancora cosa penso dell'Irlanda. Nonostante il paesaggio sia di una bellezza purissima non riesco ancora a farmi assorbire dai colori e dai luoghi. Forse mi manca la solitudine per innamorarmi pienamente di questo viaggio, perché queste strade mi trasformino.
Qui il contatto con la terra è intensissimo. Il profumo dell'erba bagnata dalla pioggia gonfia polmoni e cervello.
A tratti dal finestrino vedo solo rocce, mare, cavalli e cielo. Qualche casa, isolata. Qui lo spazio è soprattutto distanza.
E poi piove. Qualche umano cammina nella pioggia e ne fa parte. La gente vi si adatta, la vive, ci si addentra e ne viene ornata.
C'è purezza nell'aria e sulla terra.
I centri commerciali si addensano alle porte delle città come mostri grigi ed obesi. Inorridisco.
per fortuna le città finiscono. Tornano le distanze.
Sulla strada verso Dingle trovo il mio posto divino.
Il verde si tuffa nel vuoto e nel mare che lo raccoglie centinaia di metri più giù. Non so dove siamo, il silenzio è grandissimo e profondo. La pioggia bagna le pagine su cui scrivo.
Respiro a pieni polmoni, quasi potessi contenere tutto questo vento e questo verde e sentirmi più ancorata alla terra. Essere pesante per non arrendermi alla gravità del vuoto sottostante. Per resistere come fanno queste scogliere.
Respiro sale e terra che mi partoriscono ancora una volta.

La Moschea di Parigi


Nonostante i turisti e le fotografie, si respira armonia e silenzio.
Legno, alberi di limone, ceramiche bianche e turchine. Il sole si specchia sui mosaici dei pavimenti e sui muri. Se guardo in alto vedo il minareto. Si impone con la sua semplicità tra i tetti parigini che impallidiscono frivoli al suo fianco.
Qualcuno mi ha detto "Islam è pace", e pace è proprio quello che abita queste pietre.
Sono contenta di essere venuta, mi riposo un po' dalla metropoli da cui sono stata inghiottita in questi giorni. Qui Parigi torna bambina e dimessa.
La moschea vive e non si cura di me, sembra che tutti si conoscano.
Le donne sono bellissime nei loro vestiti ricamati, si fotografano a vicenda insieme a figli e mariti con cellulari e fotocamere. Vanitose. Sanno quanto sono belle nel sole pomeridiano.
Pace fino al mattino.
Io. Quanto sono immensamente lontana dalla divinità. Mi rattristo.
Eppure non riesco più ad andarmene, è come se il mio corpo non volesse lasciare questo luogo. E' meraviglioso essere qui. Canto di uccelli, vento, qualche parola araba qui e là, volatile, piumata.
Pace fino al mattino.

martedì 7 settembre 2010

Cittadinanza: Italiana
Tradizione: Italiana
Cucina: Italiana
Letteratura: Italiana
Eleganza: Italiana
Indifferenza: Italiana
Omertà: Italiana
Umanità: Respinta
Clandestina.

sabato 3 luglio 2010

Libia

Leggo il giornale con orrore. Voglio scriverne ma non trovo parole per commentare quello che sta succedendo in Libia in questi giorni, mentre il mondo è seduto con ciabatte e birra di fronte ai mondiali.
Penso agli amici che quel viaggio l'hanno fatto. Che sanno cos'è una prigione libica. Che sanno che mai ci si dovrebbe andare, mai. E soprattutto mai ci si dovrebbe tornare. Come sanno che non si può e non si deve ritornare al paese da cui si è fuggiti disertando il servizio militare. Che l'accoglienza non sarà buona, ma qualcosa di disumano, come questo silenzio.
Come sfondare questo muro di indifferenza non lo so. I chilometri non cancellano le storie, né i segni delle botte. Vorrei poter dire ai miei amici eritrei di tormentarci, di raccontare continuamente i loro viaggi a chiunque, ovunque. Che ad ogni singolo italiano incontrato in autobus, in treno o al supermercato regalino una parte di storia e di orrore. Un po' di ferite, di sete, di piaghe...tutto quello che non si può raccontare.

sabato 26 giugno 2010

La Poltrona


Non ricordo come si chiama, forse non lo so. Mi piace quello che dice.
Lo dice sprofondando in una poltrona a rotelle, sotto un albero. Grigia, finta pelle da ufficio. Venerdì sera, giardini Fava, Bologna. Non è arrabbiato ma parla chiaro, pensa chiaro.

"Vi stanno togliendo tutti i diritti, uno ad uno, e voi non fate niente. Mi dispiace dirlo, ma questa cultura italiana del non pensare e del non agire è una vostra enorme stupidità. Prima di venire in Italia credevo che il problema dell'Africa fossero il colonialismo e ciò che ne ha preso il posto, ma soprattutto gli europei.
Vi immaginavo ricchi sfruttatori. Poi sono arrivato qui e vi ho visti, ho visto che avete i nostri stessi problemi, che vivete come noi e vi ribellate meno di noi. Allora ho capito che non esiste più nero e bianco, non può più esistere una lotta così. Esistono europei poveri ed africani poveri. Esistono ricchi e poveri, senza colori. La lotta è globale, la lotta deve essere globale.
Penso ad uno dei più grandi leader africani, Thomas Sankara. Lui aveva capito: non ha mai attaccato o accusato gli europei di tutti i mali africani, ma ha accusato il capitalismo. Non si tratta di persone o razze, ma di modelli economici. Sankara andava in bicicletta, guidava una Renault 5, viaggiava in classe economica. Ha vissuto come viveva il popolo, ha promosso la salute del popolo.
E' stato uno dei primi a dire che la gente aveva diritto di mangiare ciò che coltivava e di coltivare ciò che voleva mangiare.
La politica europea è fondata su una menzogna e nessuno la smaschera. La menzogna è quella di pensarvi democratici. Ciò che per voi è deemocratico è il vostro interesse e pretendete anche di esportarlo. Chiedetevi cos'è questa democrazia che vi fa fare la fame".
Poi sprofonda nuovamente nella poltrona: "Mi piacciono le poltrone, a casa dei miei amici tutti mi lasciano la poltrona appena entro".

Estrae un'armonica e suona.
Io penso a noi, schiavi di una poltrona fantasma, ormai anche un po' scomoda.

venerdì 4 giugno 2010

Giugno mimetico

Attraverso la città pedalando. A Parma qualsiasi distanza si può coprire in bcicletta, e questo mi piace. Mi perdo per le strade del centro, l'aria è calda, è tempo di giugno.
In piazzale della Pace c'è gente, tanta gente, anche se ancora non si sentono le chitarre e le percussioni estive.
In piazzale della Pace ci sono anche due uomini in divisa mimetica. Sono militari.
E' per la sicurezza. Sono una trentina, ruotano. Sono distribuiti in alcune aree "sensibili".
Li guardo camminare in coppia, armati. Attorno a loro Parma continua il suo pomeriggio sonnolento. Gente al bar, chi guarda le vetrine, chi passeggia sui tacchi. Lo scenario è surreale. Aria di guerra per la pace dei parmigiani.
Non so a voi, a me le armi fanno paura.
Ad Addis Abeba prima delle elezioni ho visto militari ad ogni angolo. Erano uguali.
Dove finisce il regime e dove inizia la sicurezza?
Io non mi sento sicura, ma legata.

giovedì 6 maggio 2010

Razzismo di ritorno

Come uscire da quella tipica situazione in cui tu,
ventenne fiduciosa,
una sera di maggio vai a teatro...
C'è uno spettacolo organizzato da Libera sui fatti di Rosarno.
Ti siedi, guardi lo spettacolo, poi le luci si ccendono e tu ti accorgi che in sala ci sono 35 persone,
tutte italianissime, pulitissime, bianchissime.
Pochissime.
E sempre le stesse...
Come uscire da questa specie di circolo di illuminati depressi?
In fondo non riesco a non pensare che in questo essere pochi, essere "noi", non ci sia un po' di autocompiacimento.
Tutta questa gente, che legge i libri sulla migrazione e non perde una rassegna sull'Africa,
mi chiedo se abbia mai condiviso un pasto con uno straniero, un divano, una panchina, un posto sul treno o sull'autobus,
un pensiero, una parola.
Penso ai miei amici, non razzisti,
anche di sinistra.
Penso ai loro sguardi quando mi incontrano con un amico africano.
Li vedo, confusi.
Non sanno se pensarmi come un animo gentile, mossa da sentimenti di pietà per i poveri e sfortunati migranti, oppure se ridere e ammiccare, come se non potessero fare a meno di fare congetture su quale tipo di ambiguità ci leghi.
Come se non fosse possibile nessun altro tipo di incontro.
Filantropia vittoriana o esotismo. Non c'è altra interpretazione.
Questo è razzismo, è serpeggiante, discreto, ma è razzismo.
Razzismo liberale, razzismo di ritorno, che nasce anche dall'autoesclusione a cui ci condanniamo, che scegliamo. Quella delle rassegne, delle mostre, delle cene africane senza africani, in cui noi vediamo la rappresentazione tranquillizzante di qualcosa che non conosciamo, che accogliamo solo formalmente. Così non ci sentamo razzisti, eliminiamo il senso di colpa. L'Africa ci piace, ma l'Africa qui non ci riguarda.
Non la incontriamo. Cosa vuol dire africano? chi sono gli africani a Parma? Come vivono? dove vivono queste persone? Come si chiamano? Da dove vengono?
Scopriremo mai che Solomon è eritreo, che non è la stessa cosa che essere etiope, che a sua volta è diverso dal dire "africano"?
Penso soprattutto a Parma, alla netta separazione degli spazi urbani tra Parmigiani e Stranieri,l'elegante apartheid che viviamo ogni giorno, che scegliamo.
Ci penso, e mi riesce un po' difficile trovare una soluzione.
Ieri, dopo l'ennesimo incontro sulla migrazione torno nella mia casa di Bologna. Io e Valeria, la mia coinquilina invitiamo degli amici a cena. Abraham, eritreo, Mor e Khadim, senegalesi. Loro sono più italiani di noi, vogliono vedere la partita, perché gioca l'Inter e poi anche un film su Italia 1. Noi sono mesi che non accendiamo la tv, così ci incastriamo tra cavi ed antenne per cercare di ottenere un immagine decente. Io credo che questo non possa e non debba stupirci. Mi auguro che non debba stupirci più.
C'è un detto etiope secondo cui noi uomini siamo tutti polmoni che respirano, solo polmoni che respirano. E sia.

lunedì 3 maggio 2010

Non so scrivere un libro

A volte sono spiaggia, greto di torrente, argilla. Spesso sono deserto.
Sono argilla quando ho la sensazione, come un'antica consapevolezza, di possedere un universo di storie, verità relative da raccontare.
Sono deserto quando mi accorgo che il mio tesoro di storie non esiste, che il mio discorso è un soliloquio.
Vivo ed invento frammenti, particolari che non so fondere, non so fare universo.
Sono uno scarso demiurgo.

Welcome, gennaio 2010

Fortunatamente questa sera ho deciso di non risparmiare e sono andata al cinema. Sfortunatamente per voi, vi scrivo ancora.
Ho visto Welcome.
Degli amici me ne avevano parlato bene, e poi il titolo mi interessava. Una parola mai così svalutata.
Il film è splendido e agghiacciante. Non fate programmi per il dopo, se andrete a vederlo. Avrete solo voglia di tenervi la testa tra le mani. O magari l'avete già visto e lo sapete meglio di me. Bilal è curdo, arriva clandestino in Francia, a Calais da dove spera di imbarcarsi per l'Inghilterra. Là c'è la sua fidanzata. Bilal ha sedici anni, l'età di mio fratello e i suoi stessi sogni. E' bravo a giocare a calcio, vorrebbe giocare nel Manchester. Dopo aver esaurito soldi e tentativi Bilal prova l'ultima impossibile soluzione: traversare la manica a nuoto. Si allena tutti i giorni, nuota in mare aperto aiutato da un insegnante di nuoto che rischia il carcere, perchè favorisce e fomenta l'immigrazione clandestina secondo l'ultima legge francese sull'immigrazione, un capolavoro di disumanità.
Guardatelo, è importante. Adesso come non mai, se non altro per continuare a “sentire” umanamente se pensare non ci riesce più.
La vera traversata dobbiamo farla noi che consideriamo straniero anche il nostro vicino di casa,che viviamo nelle nostre piccole nevrosi “civili” e lasciamo che si consumino sotto i nostri occhi le ingiustizie che 60 anni fa non abbiamo tollerato e dalle quali ci siamo liberati. Ora non le vediamo più, sono miserie di altri, clandestine.
Quello che succede oggi a Rosarno è il benvenuto mancato. C'è qualcuno che è stanco di essere invisibile, di essere un concetto, un 'astrazione, un problema. C'è chi, nonostante tutto non ha ancora abdicato alla dignità. E per noi questo è sconcertante, non siamo preparati. Noi la dignità non ce la ricordiamo più.

mercoledì 28 aprile 2010

Cairo, 11 Febbraio 2010

Su una panchina dell'areoporto scrivo. Egitto virtuale, che non posso calpestare. Il mio volo da Milano era in ritardo di due ore, così ho perso il volo seguente e mi ritrovo qui con un ragazzo etiope conosciuto in aereo. Si chiama Simachew, ha 25 anni e parla un inglese impeccabile. Ha vissuto gli ultimi due anni in Europa, tra Francia e Italia per un master. In Etiopia lo stato paga gran parte dei costi dell'università, ma una volta laureati è necessario lavorare per il governo finchè non si salda il debito. Così Simachew ora viene spedito a centinaia di chilometri da casa, a fare l'insegnante. Sarà maestro di matematica in una città vicino ad Awasa. E' molto comunicativo e desidera parlare. Gli chiedo della situazione politica etiope e delle elezioni di maggio. Si fa serio. La sua risposta è sconfortante. Dice che è arrivato ad odiare la politica, che desidererebbe davvero starne fuori, ma le condizioni lo obbligano ad occuparsene. Che queste elezioni sono senza significato e non saranno diverse dalle precedenti. Dice che Meles è un buon comunicatore e riesce ad influenzare la mente delle persone. Dice falsità ma le dice bene. Non posso non pensare all'Italia.
Gli chiedo quale sia il modo per cambiare le cose. Si guarda attorno, parla avoce bassa. Dice di non saperlo, ma che di certo non è la politica. La politica è un equilibrio di compromessi ed interessi. Intelligente ma disonesto. L'educazione è una via, ma per insegnare e apprendere è necessario essere liberi di esprimersi. In Etiopia non è possibile. Io sono contro il governo, ma se il governo lo sapesse mi arresterebbe. L'opposizione in Etiopia non esiste. I rappresentanti delle opposizioni, che non siano fittizie, sono tutti in carcere. Alcuni condannati a morte. Non c'è speranza politica per il mio paese -mi dice- Io spero di trasferirmi negli stati uniti.
Per il resto del viaggio parliamo di film e di sport, insospettabili sovversivi. Ci salutiamo pesanti. Aspettiamo maggio.

Teologia di un migrante


Deve essere un dio dispettoso quello che mi guarda camminare su queste terre di altri.
Estraneo ovunque, sono un punto nero che si muove tra tanti, più nero degli altri.
Deve essere un dio esigente e dal passo buono per condurre sempre a terre Promesse e Lontane, invisibili all'orizzonte.
Molto idealista o molto distratto per non accorgersi del mio avere fame-avere freddo.
Con un certo amaro senso dell'umorismo per avermi scolpito sotto piogge calde e soli rossi e abbandonato poi tra foreste di ombrelli ed impermeabili color noia. Passi umidi sull'asfalto bagnato.

Eppure la sera quando il vostro cielo plumbeo ritrova la naturalezza del blu mi fermo e prego.

Prego un dio fratello, che comprenda la mia lingua dai suoni duri e rida con me del vostro instancabile gesticolare.
Un dio scalzo, che sappia quanto scotta la lamiera del container e porti con sé due vesciche chiare sotto i piedi, ricordo delle piante bruciate.
Un dio frettoloso, che si alzi dal suo giaciglio di immortalità e muova instancabile la ruota del tempo e della memoria, perché i giorni da schiavo passino presto ed io lo sappia.
Prego un dio madre, che abbia cura di ogni viaggiatore e vagabondo, di ogni coraggiosa sorella di cammino che non sono stato in grado di difendere, di accompagnare.
Prego un dio musicista, capace di restituirmi in una brezza i suoni della mia gente e delle loro mani scure su corde e tamburi, per rompere questo silenzio soffocante di chilometri e mediterraneo.

Aiutatemi questa sera, fratelli e sorelle immersi nella danza, con le voci, con i canti con il battito dei vostri piedi sulla terra.
Ballate, sudate, e ringraziate chi ha inventato musica, spezie e sapori che viaggiano di mare in mare, di gente in gente.
Vi guardo, oltre le ciglia ho un sogno o una liturgia.
Bambini, uomini, donne, colori. Passato e futuro.
Si fondono i nostri ritmi, le nostre tante lingue.
Le mani raccolgono riso dagli stessi enormi piatti e noi non siamo più stranieri.


30 giugno 2009, giornata mondiale del rifugiato.
Festa al centro di accoglienza per rifugiati politici, Via Quarto di sopra, Bologna

Enrica

Genova, un anno fa


Genova è piena di cose immensamente belle ed immensamente brutte.
Aperture, spazi azzurri e vicoli stretti, scuri. Genova si apre, si espande e ti espande, per poi riportarti all'introspezione. In bilico tra l'odore del mare e i cassonetti, con il pulsare di un polmone, come un respiro. Genova è strisciante, camaleontica, rettile, con le sue strade sporche e bagnate. I piedi calpestano le pozze d'acqua, scivolano su residui vegetali ed animali. Pura Genova, e allo stesso empo contaminante. Genova è multiforme: si inventa spagnola, araba, greca, si trucca sciliana, latina. E' mistero profumato di viaggi antichi, di mercati e di spezie. File di indumenti stesi popolano i vicoli, reti di parole tessute dalle donne alle finestre impegnate a ritirarli, asciutti. Lingua saggia, lingua d'altitudine e vertigine che si beffa della città ma le appartiene. parole di smog e sapone. Vento.

sabato 24 aprile 2010

Kofale, marzo 2010


Mi sembra assurdo scrivere di questo proprio ora, in un momento di pace, dall'altra parte del mondo, ma oggi ogni conversazione, evento, pensiero, mi riporta all'Italia. In questo tempo in cui mi interrogo sull'identità altrui mi chiedo sempre più fortemente cosa abbia io da scambiare. Partecipo all'incontro? Sono coerente? Sono libera? Di fronte al solido senso di appartenenza che questo popolo comunica mi trovo più che mai culturalmente nomade, legami con il mio paese recisi. Italianità assente. Italianità?
Detesto le domande sul mio paese e rispondo in modo vago, soprattutto perché l'Italia e un fenomeno burlrsco ed intraducibile per chi non è nato entro i suoi confini. Mi è stato chiesto se è vero che il nostro presidente non è onesto e che non c'è libera informazione. Mi hanno chiesto anche se ha usato l'esercito per mantenere il potere. Difficile e amaro spiegare che la maggioranza della popolazione ha scelto di votarlo. Senza brogli? Senza brogli.
Qualcuno racconta di studenti uccisi all'università. Quando si manifestava per poter studiare nella propria lingua tanti hanno bruciato i libri di amarico. Qualche morto non importa, mi dicono. Ci si spende per la causa. Di fronte a questo mi vergogno della poca forza con cui ci opponiamo, della nostra incapacità di essere critici e coesi di fronte a quella che è solo la caricatura di un dittatore. Per ora.
Il clima elettorale lascia presagire che le future elezioni saranno solo una formalità. I risultati 45 giorni dopo il voto. L'opposizione è effettivamente inesistente. Il partito candida ex-parlamentari, l'opposizione giovani studenti. Al macello. L'ingiustizia è palese. Per quanto possa odiare questo sistema non posso fare a meno di pensare a quanto sia involontariamente sincero. Non c'è spazio per il confronto politico perché il governo non lo permette, non c'è spazio per i diritti perché l'èlite al potere mantiene i suoi privilegi inalterati. Questo è palese, sotto gli occhi di tutti. Penso quindi che il nostro sistema sia immensamente più ipocrita cpon il suo parlare di pluraklism e democrazia, ma penso anche che abbiamo ancora un grande spazio di manovra non sfruttato per esercitare dissenso. Se non fosse che questo ci richiederebbe di liberarci dal processo di controllo e distruzione del pensiero che ci è imposto ogni giorno dai mezzi di comunicazione. Se lo facessimo la nostra schiavitù condivisa da subcultura televisiva domenicale ci apparirebbe all'improvviso chiara.
Non ho notizie dell'Italia da più di un mese, se non qualche emailche mi scrive un'amica. Eppure mi sembra di sapere tutto, e vedere nero.
A volte, catapultata in questo mondo di tradizione, di memoria orale, di identità sentita come prioritaria mi chiedo chi sono io, e da dove vengo. Nebulose. E tutto questo non sapere da dove vengo mi rende difficile capire dove voglio andare, mi condanna all'esilio. Guardo Feyisa, che lavora con me. Può indicare fino a dieci generazioni della sua famiglia. Mi dice che non troverò traccia di amarico nel suo albero genealogico. Non c'è nome che non sia Oromo. Io non arrivo oltre mio nonno.
Gli dico di Parma, di piazzale Picelli, delle barricate e della Resistenza,che è l'unica parte della storia d'Italia che non mi vergogno di raccontare. Lui mi chiede perchè non sia stato quello il tema del mio lavoro. Mi dice di continuare a cercare con forza e scrivere. Non lasciare che ti facciano essere qualcuno o qualcosa che non vuoi solo perché non ricordi chi sei.
L'identità si sceglie. Meglio darsi da fare, allora. Nel frattempo mi da un nome oromo, Chaaltu. Come per rassicurarmi mi dice: " Per il tempo che sei qui, Enrica, sei Oromo". Mi sento improvvisamente meno povera.

Risèra


Ci sediamo attorno al tavolo incredibilmente pulito. Ha già preparato caffè, zucchero e cucchiaino.
La guardo. Ottantatré anni. Una vita, un libro, un storia. Parte viva di un' Emilia che fatico ad immaginare.
La ascolto, quasi religiosamente.
Allora, Cosa ti racconto?
La risaia. Le dico.
Sorride e mi guarda, poi comincia:
Alòra...scusa, lo so raccontare solo in dialètt! Allora, la risèra.
Dunque, eravamo in tutto una cinquantina. Venivamo da Serramazzoni, da Pavullo e dalle montagne. Partivamo da Serra in corriera. Arrivavamo fino a Modena. Da Modena poi prendevamo il treno per Vercelli, dove c'erano le risaie. Da casa portavamo una fodera per materasso da riempire di paglia per fare il letto.
Alle sei ci si svegliava per essere al lavoro alle sette in punto. Alle dodici e mezza ci si fermava che era pronto il pranzo: riso e latte. All'una si ricominciava a lavorare fino alle sei della sera. Si lavorava dieci ore al dì. Si cenava con riso e latte tant par cambièr. Si andava a letto presto e si dormiva tutti insieme nelle camerate. Solo il sabato si faceva tardi perché si andava tutti a ballare dato che la domenica era festa. Però il sabato si doveva anche lavorare dieci minuti in più perché così il padrone la domenica dava pasta e condimento e noi allora eravamo a nozze. Immaginati.
-Com'era il lavoro? Cosa dovevi fare?-
Si andava in risaia e prima di tutto si dovevano togliere le erbe matte a mano, nell'acqua.
Poi si andava a ranchèr, cioè si facevano dei mazzi di riso.
Da lì si andava al trapianto, si prendevano le piantine e le si trapiantava, un gambo alla volta, fuori dall'acqua nel pantano.
Il tutto durava cinquanta giorni, dalla semina al trapianto, tutti gli anni. Si partiva a giugno e si tornava a luglio. Trentamila lire per cinquanta giorni. Mio padre ci pagava i debiti dell'inverno, del cibo e delle spese. Poi, quando tornavi a casa i padroni ti davano anche 25 chili di riso, tanto non ne avevi mangiato abbastanza!
Eravamo in tre sorelle a lavorare alle risaie: io, la Rosa e la Linda.
-E i padroni come erano?-
Erano padroni. Non ci si poteva mai alzare, se alzavi la schiena ti davano una bastonata. Bisognerebbe mandarci i gioven d'incò! Stavamo dieci ore chinati. Solo quando i padroni si allontanavano un po' ci si poteva alzare, si faceva a turno a buttare un occhio per controllare se arrivavano. Io per fortuna non ne ho prese di bastonate, ma dopo dieci ore in risaia si andava a casa gobbi! Eppure eravamo contente come delle Pasque! Tutte giovani, tutte donne, si cantava e si cantava sempre.
Portavamo con noi due scatole di Biancardi, che era una crema per non abbronzarsi, per non far sapere che si era state alla risaia. Si faceva brutta figura se no, quando tornavi. Invece così venivi a casa bella bianca e non sembrava che avessi lavorato, figureva bén insomma.
Pensa se eravamo stupidi.
Si stava tutto il giorno a piedi nudi, con l'acqua fino alle ginocchia.
-Cosa si cantava?-
C'erano le vercellesi che iniziavano a cantare:

Chi sa far l'amore son le vercellesi e non le modenesi!

Allora le modenesi rispondevano:

Chi sa far l'amore son le modenesi e non le vercellesi!

Come si arrabbiavano!
Alle vercellesi ci si stava lontano perché raccoglievano le rane per mangiarle e sentivi
-tic tic-
le gambine delle rane,.
-Tic tic-
Mi facevano un' impressione.
Poi si cantava:

La Violetta la va la va
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.

Ci si divertiva, si cantava.
Eravamo quasi tutte donne, c'erano due o tre uomini soltanto. Gli uomini guidavano i carri, portavano via i mazzi di riso che rimanevano oppure si mettevano in gubòn a fare quello che facevamo noi.
C'era anche mio cugino; Una volta la Linda gli ha tagliato i capelli e lui quando si è visto allo specchio l'ha rincorsa tutto il giorno per darle delle botte. Erano tagliati male.
In risèra era pieno di zanzare. Ce ne erano tante, ma tante! Per mandarle via prendevamo della carta nel dormitorio e la facevamo bruciare. Ogni tanto bruciavamo anche un letto, perché se il materasso era troppo vicino alla carta prendeva fuoco.
Dopo bisognava dormire in due in un materasso solo. Ma ce n'erano tante che non resistevi mìcca. Gli zampironi non esistevamo mìcca.
Se ti ammalavi lavoravi lo stesso, eravamo sempre noi poverette, quelle della risèra.
Era una vita da bestia, vè. Si dormiva in cascina ma bisognava cucinare fuori, nei fugòn, i forni di latta.

Dio bòn, le canzoni! Non mi vengono mìcca in mente. No, di canzoni proprio, guèrda...

-Dici che era una vita da bestia ma ti divertivi. Eri contenta di andare?-
Dovevi andare se volevi mangiare. Però prima ti facevano la visita, non credere.
Alla visita il medico mi ha detto: Stai bene? Si, sto bene. Finita la visita.
Altro che visita, ti davano un' ocèda.

'Spetta 'spetta, di canzoni ce n'era una:

La Violetta la va la va
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.

Si, nonna, è la stessa di prima.
Ah, si, l'è cola lì. Alora gnenta. Cosa ti conto?

Un anno mentre tornavo a casa con i soldi che avevo guadagnato in risèra ho comprato una bella stoffa per farmi un vestito. Quando son tornata il papà mi ha detto di non sognarmi mai più di fare in lavoro del genere. Il papà faceva i conti quando si tornava.
Che poi i vestiti erano inutili, con un vestit fèv tott. Avevo dei pantaloni corti e degli stivali, perché lì quando pioveva pioveva davvero. Venivan giù gli alberi, sembrava un terremoto. Se pioveva non si lavorava, ma pioveva sempre poco. Pioveva un'ora, poi si ripartiva. Sull'argine ci si levava gli stivali, poi si andava scalzi. Nel pantano.
-Mangi ancora il riso?-
Quasi mai, a mangiarlo per cinquanta giorni poi ne hai abbastanza.
-Dopo il lavoro?-
Dopo dieci ore di lavoro eravamo ben felici, andavamo a casa che si cantava!
Si stava in camera a raccontarsela un po' con le amiche, sai. C'era una mia amica, un tipo alto, bello. Lei ballava il twist, insomma la balèva un po'. Allora si ballava, tanto per passare il tempo e andare a letto. La Silvana si chiamava. Chissà che fine ha fatto.
Poi cosa ti posso raccontare? Le canzoni se mi vengono in mente te le scrivo.
Hai capito che bella vita che facevamo? Adesso son più furbi, fan tutto a macchina.
Allora invece stavi lì a mollo. C'erano dei pesci d'acqua che ogni tanto ci passavano tra i piedi e sentivi gridare: Ohi, un pèss!
Ma quella delle rane mi è rimasta proprio impressa. Le vercellesi le prendevano, poi
-tic tic-
e via nel sacchetto. Adesso fanno a pugni per mangiare le rane! Mi è rimasto tanto impresso quel lavoro lì.
Sentivi -tic tic- ste gambine!

Questa qui te l'ho insegnata?

La Violetta la va la va,
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.
Si.
Ah, alora l'è semper quèla.

C'erano due ragazzi in cascina, così tutte facevano a gara per piacere al fiòl d'al padròn. Eran due bei ragazzi quelli, me li ricordo. C'era sempre una che veniva fuori: Ieri sera son steda a parlèr col fiòl dal padròn! Mo lèsa stèr! Le dicevamo.
A ballare c'era sempre da discutere perché i ragazzi di Vercelli prendevan sù noi e lasciavano lì le vercellesi. Allora c'era sempre da dire.
Una sera uno dice ad una mia amica: Signorina, balla? Lei risponde: No, sono impegnata. Al secondo ballo lui le chiede: Signorina, balla? Lei: No, sono impegnata. Al terzo ballo nessuno la fa ballare allora il ragazzo va da lei e le dice: Signorina, è libera? Lei: Si, sono libera. E lui: Allora viva la libertà! E se ne va. E lei che gli urlava:
Ignùrànt, fetént d'un stùpid!
Quando andavamo alla balera, siccome di soldi non ce n'era, prendevamo una gasosa in tutta la sera. Se rimanevano senza ci veniva la rabbia e gli dicevamo: al sabato non siete mìcca capaci di far provvista di gasosa?
Ah, eravamo dei bei clienti, clienti di gasosa!
-E il vino?-
Eh, il vino era nelle osterie. Non c'era mìcca tanto vino, e nemmeno l'acqua di adesso. L'acqua della fontana c'era!
Quella stoffa lì che ti dicevo, ci devo avere una fotografia.
L'ha trovata la Giovanna, la figlia della Linda. Salta fuori questa fotografia d'una bella dònna. Le ho detto: At vist, mò? N'ero mia brùta come son brùta adès!
I momenti più belli che ho passato io sono alla risaia. Perché sai, eravamo in tante, tutte del paese. Si stava insieme. Eravamo contente.
Pensa te che non mi viene in mente una canzone. Si cantava sempre. Ah, spetta:

Bandiera rossa la trionferà,
Viva il comunismo e la libertà!

-Beh, nonna, questa è famosa-
Eh. Questa la cantèven sémper, specialmente in treno.
-I padroni non erano contenti immagino-
No, no. Non erano contenti.
-C'erano tanti comunisti a Serra?-
Tanti. Allora erano tutti comunisti. Serra era rossa. Anche Pavullo era rossa. Anzi, Serra non era rossa però cantavamo lo stesso.
Chi non era rosso erano solo i signori, gli altri erano tutti rossi.
Anche a Vercelli non erano rossi, eran tùt democràtic. Eran tutti ricchi. Tutte cascine di riso. C'eravamo solo noialtri che eravamo dei disgrasiè. Eravamo proprio i più povrètt dopo la guerra.

E' lè il trambéllético che viene dalla serra,
la va al vien per terra con gran velocità.

-Il trambéllético?-
Si, lèsa stèr, che belle canzoni! Quant'anni son passati, mama.
Ce ne era una del siòr padròn: Siòr padròn dalle belle braghe bianche. Eh si, perchè loro erano sempre tutti eleganti. Loro stavano in cima all'argine, mica dentro!
Insomma, diceva: Tira fuori le palanche, i soldi, che andìm a cà.
Erano gentilissimi i padroni. Quando ti salutavano ti davano la mano e ti facevano tanti auguri.
Pensa quanto ci guadagnavano! Non ci pagavano nemmeno mille lire al giorno.

Silenzio. Ricorda, sorride e ricomincia.

Non immaginate neanche cosa sia la risaia.
Una volta c'era una mondina in televisione. Diceva che è il lavoro peggiore di tutti. E' vero.
Poi, dopo, eravamo tutti contenti, eravamo giovani e ci accontentavamo di poco.
Prima di partire mia mamma ci faceva una bottiglia di Vov, il liquore con l'uovo. Prima di lavorare ne bevevamo un bicchierino e poi via che andavi. Eh, allora non c'era mica tanto mal di fegato.
Non ingrasèv mìa! Io ero 42 chili, pensa te. Non c'era mica tanto colesterolo, non c'era. Eppure andavamo come i fulmini, andavamo.
Eh, queste cose non le dimentichi, non si dimenticano mìcca.


Parole di Pia Rovina,mia nonna. Un pomeriggio davanti ad un caffè, autunno 2009.
Enrica

Parma, 1922


Si erano vestiti dalla festa
per una vittoria impossibile
nel corso fangoso della Storia.

Stavano di vedetta armati
con vecchi fucili novantuno
a difesa della libertà conquistata

da loro per la piccola patria
tenendosi svegli nelle notti afose
dell'agosto con i cori

della nostra musica
con il vino fosco
della nostra terra.

Vincenti per qualche giorno
vincenti per tutta la vita.

Attilio Bertolucci

Città Futura

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l'assenteismo e l'indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto ad ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta già costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'é in essa nessuno che stia dalla alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Peciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

A. Gramsci, Febbraio 1917

Buon Anno (un passo indietro)

Mi chiedo cosa sarà del nuovo anno. Se continueremo ad avere paura, respingere, discriminare. Se la Lega continuerà a rafforzarsi e il governo italiano a mentire. Se continueremo a tagliare fondi all'istruzione auto-condannandoci all'esilio e se non ci stancheremo di sentirci ripetere le stesse parole placebo sulla crisi che non esiste ed altri lieti finali. Mi chiedo se sto sognando, se vedo nero quando nero non è, oppure se stiamo tutti dormendo. O forse più che dormendo stiamo tutti comprando...mi chiedo se il consumismo non sia la droga di stato, e allora tanto vale fumare erba che è più economica buona e naturale e poi, dato che siamo ben lontani dalla legalizzazione c'è anche il fascino del proibito che è piacevole e fa sentire vivi, il che è positivo per un paese di vecchi come il nostro. Mi chiedo se per l'Italia sia ancora possibile riscattarsi, se la morte lenta verso la quale ci stiamo dirigendo sia un processo reversibile. Penso alla mia città, Parma, che anche se nessuno lo dice più, un tempo ha fatto le barricate e ha fermato i fascisti in piazzale Picelli ed ora ospita i banchetti della Lega Nord in via Mazzini. E i leghisti che danno i volantini hanno la mia età, e parlano di identità europea e cristiana minacciata e non sanno nemmeno parlare un italiano corretto. E non hanno mai letto Dante o Boccaccio, o una poesia di Montale, e chiamano ignoranti i loro coetanei musulmani e senegalesi che sanno recitare il Corano a memoria e i versi di Senghor e dei loro poeti preferiti. Mi chiedo se sarà mai possibile svegliarsi da questo sonno, da questa tremenda ed inquietante pennichella sociale che si protrae dagli anni settanta ad oggi, alimentata anche da tutto il cibo industriale che ingurgitiamo e che ci uccide lentamente, avvelenandoci. Così siamo obesi, denutriti, addormentati, malati. Mi chiedo se sia utile o di buon gusto scrivere qui questa sorta di sfogo- augurio. Ma forse non importa. Quello che importa è che inshallah, è finito anche questo anno poco glorioso per tutti noi. Prendiamo un volo low cost e andiamo in Egitto o in Kenia, nel villaggio vacanze italiano, costruito sulle terre dei beduini o dei masai, ora profughi in patria. La sera c'è anche l'animazione e ci si diverte di brutto, e al ristorante se prendi il menù continentale, fanno anche gli spaghetti, perchè io quelle robe lì infette che mangiano loro non le voglio neanche vedere. Non voglio mica prendermi il tifo. E poi così abbiamo visto anche l'Africa, che una volta nella vita bisogna andarci, che lì è tutto un altro mondo. Poi la sera vai adormire nella camera da letto climatizzata con la biancheria pulita ogni giorno, cambiata dalla ragazza che fa le pulizie e che lavora sottopagata dodici ore al giorno, e che probabilmente ha un fratello maggiore emigrato in italia per fare un po' di soldi da mandarle, così lei può sposarsi e farsi una famiglia. Lei gli aveva detto che in Italia son tutti ricchi... dovresti vedere la mancia che mi lasciano! Lui probabilmente non ha trovato lavoro e dorme fuori, in stazione anche a dicembre, ma non ha il coraggio di raccontarglielo a sua sorella.
Mi chiedo se mai ci arrabbiassimo, tutti, e tanto... cosa succederebbe?
Vi auguro una buona VEGLIA di fine anno, il che implica la speranza di essere prima o poi svegli dall'incubo dell'indifferenza.
E che il panettone Motta vi sia almeno un po' indigesto. E sarà facile, lo fanno con l'acido.
Auguri.

Enrica


venerdì 23 aprile 2010

Ritorno


Torno a Parma dopo due mesi di Oromia, non dico Etiopia, qualcuno immaginerà perché.
Sono persa più che mai e inorridita dalle persone che incontro e mi compatiscono dicendomi che, poverina, ho il mal d'Africa... No, amici miei, ho il mal d'Italia! Cosa succede? vi lascio per due mesi e va tutto a rotoli! Ho aperto il giornale a Fiumicino e mi sono spaventata. L'Italia post-regionali è in mano alla lega con forza sempre maggiore. Chiude l'ospedale di Emergency nel sud dell'Afghanistan, esaurita così anche una delle poche fonti di informazioni credibili su territorio Afghano. Il governo italiano ne è ben felice e non muove un dito. Si offende anzi perchè i poveracci non accettano il volo di stato per tornare a casa. Come se l'Italia potesse essere ancora una casa per loro. Il paese che li considera terroristi. Le dichiarazioni di Frattini fanno rabbrividire. Arrivo a pagina 5 e ne ho già abbastanza. Cosa ci succede?
Ho passato gli ultimi due mesi con un popolo che ha vissuto cent'anni di colonizzazione da parte di quello che La Storia ha chiamato L'impero etiope, ed ora sperimenta una dittatura travestita da federalismo. Eppure la gente sente chiaro e forte il desiderio di essere liberi, e di vivere in un paese democratico. "Come l'Italia!" mi dicono (non sanno...). E noi? Cosa sentiamo noi?
Passo due mesi a studiare e a discutere di identità. Ogni giorno mi vergogno di più pensando al mio paese. Cosa stiamo lasciando succedere? Perché non c'è reazione?
Il centro di Parma è vestito a festa con il tricolore ad ogni angolo. Mi chiedo chi sappia con quale significato. Abbiamo perso le radici ad una velocità impressionante. Il fratello di mio nonno e morto partigiano a vent'anni, e mio fratello adolescente non lo sapeva. Gliel'ho detto io, oggi. Non lo immaginava. Andremo insieme all'ANPI a tesserarci, poco importa se è simbolico, io ne sono felice. Generalmente gli Oromo sanno contare fino a 10 generazioni precedenti la loro. Conoscono i nomi dei propri antenati e anche qualche storia. Le storie che fanno La Storia. Le si impara ascoltandole dai propri genitori, ce le si racconta la sera, dopo la fatica quotidiana. Il racconto prende vita, si ripete, diventa rito. In questo modo si crea memoria.
Io non ricordo il nome del padre di mio nonno. Tra gli Oromo ero uno scandalo. E in effetti penso che lo siamo tutti. La memoria è persa.
Presto si cominceranno a sentire le solite annuali dichiarazioni di chi chiede di scrivere la storia dei vinti, di moderare i festeggiamenti del 25 aprile, di chi dice di non mitizzare la resistenza, perché anche i partigiani sparavano, anche i partigiani hanno ucciso. Io ricordo le parole di un mio professore all'università: "Certo, anche i partigiani sparavano, e la resistenza è stata una guerra civile, ma in quella guerra, non possiamo dimenticarlo, era ben chiaro chi aveva ragione e chi aveva torto".
Io, come ogni anno, festeggerò il 25 aprile con tutta l'energia che possiedo, e con tutta la voce.
Chiedo anche a voi di festeggiare. Vi chiedo di ricordare, di chiedere, di indagare, di cercare le tracce di resistenza nella vostra famiglia, nella vostra storia. Se ne trovate qualcuna, per favore speditemela.
Ricreiamo la memoria. Liberiamoci.

Buon 25 Aprile.

Enrica