sabato 24 aprile 2010

Risèra


Ci sediamo attorno al tavolo incredibilmente pulito. Ha già preparato caffè, zucchero e cucchiaino.
La guardo. Ottantatré anni. Una vita, un libro, un storia. Parte viva di un' Emilia che fatico ad immaginare.
La ascolto, quasi religiosamente.
Allora, Cosa ti racconto?
La risaia. Le dico.
Sorride e mi guarda, poi comincia:
Alòra...scusa, lo so raccontare solo in dialètt! Allora, la risèra.
Dunque, eravamo in tutto una cinquantina. Venivamo da Serramazzoni, da Pavullo e dalle montagne. Partivamo da Serra in corriera. Arrivavamo fino a Modena. Da Modena poi prendevamo il treno per Vercelli, dove c'erano le risaie. Da casa portavamo una fodera per materasso da riempire di paglia per fare il letto.
Alle sei ci si svegliava per essere al lavoro alle sette in punto. Alle dodici e mezza ci si fermava che era pronto il pranzo: riso e latte. All'una si ricominciava a lavorare fino alle sei della sera. Si lavorava dieci ore al dì. Si cenava con riso e latte tant par cambièr. Si andava a letto presto e si dormiva tutti insieme nelle camerate. Solo il sabato si faceva tardi perché si andava tutti a ballare dato che la domenica era festa. Però il sabato si doveva anche lavorare dieci minuti in più perché così il padrone la domenica dava pasta e condimento e noi allora eravamo a nozze. Immaginati.
-Com'era il lavoro? Cosa dovevi fare?-
Si andava in risaia e prima di tutto si dovevano togliere le erbe matte a mano, nell'acqua.
Poi si andava a ranchèr, cioè si facevano dei mazzi di riso.
Da lì si andava al trapianto, si prendevano le piantine e le si trapiantava, un gambo alla volta, fuori dall'acqua nel pantano.
Il tutto durava cinquanta giorni, dalla semina al trapianto, tutti gli anni. Si partiva a giugno e si tornava a luglio. Trentamila lire per cinquanta giorni. Mio padre ci pagava i debiti dell'inverno, del cibo e delle spese. Poi, quando tornavi a casa i padroni ti davano anche 25 chili di riso, tanto non ne avevi mangiato abbastanza!
Eravamo in tre sorelle a lavorare alle risaie: io, la Rosa e la Linda.
-E i padroni come erano?-
Erano padroni. Non ci si poteva mai alzare, se alzavi la schiena ti davano una bastonata. Bisognerebbe mandarci i gioven d'incò! Stavamo dieci ore chinati. Solo quando i padroni si allontanavano un po' ci si poteva alzare, si faceva a turno a buttare un occhio per controllare se arrivavano. Io per fortuna non ne ho prese di bastonate, ma dopo dieci ore in risaia si andava a casa gobbi! Eppure eravamo contente come delle Pasque! Tutte giovani, tutte donne, si cantava e si cantava sempre.
Portavamo con noi due scatole di Biancardi, che era una crema per non abbronzarsi, per non far sapere che si era state alla risaia. Si faceva brutta figura se no, quando tornavi. Invece così venivi a casa bella bianca e non sembrava che avessi lavorato, figureva bén insomma.
Pensa se eravamo stupidi.
Si stava tutto il giorno a piedi nudi, con l'acqua fino alle ginocchia.
-Cosa si cantava?-
C'erano le vercellesi che iniziavano a cantare:

Chi sa far l'amore son le vercellesi e non le modenesi!

Allora le modenesi rispondevano:

Chi sa far l'amore son le modenesi e non le vercellesi!

Come si arrabbiavano!
Alle vercellesi ci si stava lontano perché raccoglievano le rane per mangiarle e sentivi
-tic tic-
le gambine delle rane,.
-Tic tic-
Mi facevano un' impressione.
Poi si cantava:

La Violetta la va la va
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.

Ci si divertiva, si cantava.
Eravamo quasi tutte donne, c'erano due o tre uomini soltanto. Gli uomini guidavano i carri, portavano via i mazzi di riso che rimanevano oppure si mettevano in gubòn a fare quello che facevamo noi.
C'era anche mio cugino; Una volta la Linda gli ha tagliato i capelli e lui quando si è visto allo specchio l'ha rincorsa tutto il giorno per darle delle botte. Erano tagliati male.
In risèra era pieno di zanzare. Ce ne erano tante, ma tante! Per mandarle via prendevamo della carta nel dormitorio e la facevamo bruciare. Ogni tanto bruciavamo anche un letto, perché se il materasso era troppo vicino alla carta prendeva fuoco.
Dopo bisognava dormire in due in un materasso solo. Ma ce n'erano tante che non resistevi mìcca. Gli zampironi non esistevamo mìcca.
Se ti ammalavi lavoravi lo stesso, eravamo sempre noi poverette, quelle della risèra.
Era una vita da bestia, vè. Si dormiva in cascina ma bisognava cucinare fuori, nei fugòn, i forni di latta.

Dio bòn, le canzoni! Non mi vengono mìcca in mente. No, di canzoni proprio, guèrda...

-Dici che era una vita da bestia ma ti divertivi. Eri contenta di andare?-
Dovevi andare se volevi mangiare. Però prima ti facevano la visita, non credere.
Alla visita il medico mi ha detto: Stai bene? Si, sto bene. Finita la visita.
Altro che visita, ti davano un' ocèda.

'Spetta 'spetta, di canzoni ce n'era una:

La Violetta la va la va
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.

Si, nonna, è la stessa di prima.
Ah, si, l'è cola lì. Alora gnenta. Cosa ti conto?

Un anno mentre tornavo a casa con i soldi che avevo guadagnato in risèra ho comprato una bella stoffa per farmi un vestito. Quando son tornata il papà mi ha detto di non sognarmi mai più di fare in lavoro del genere. Il papà faceva i conti quando si tornava.
Che poi i vestiti erano inutili, con un vestit fèv tott. Avevo dei pantaloni corti e degli stivali, perché lì quando pioveva pioveva davvero. Venivan giù gli alberi, sembrava un terremoto. Se pioveva non si lavorava, ma pioveva sempre poco. Pioveva un'ora, poi si ripartiva. Sull'argine ci si levava gli stivali, poi si andava scalzi. Nel pantano.
-Mangi ancora il riso?-
Quasi mai, a mangiarlo per cinquanta giorni poi ne hai abbastanza.
-Dopo il lavoro?-
Dopo dieci ore di lavoro eravamo ben felici, andavamo a casa che si cantava!
Si stava in camera a raccontarsela un po' con le amiche, sai. C'era una mia amica, un tipo alto, bello. Lei ballava il twist, insomma la balèva un po'. Allora si ballava, tanto per passare il tempo e andare a letto. La Silvana si chiamava. Chissà che fine ha fatto.
Poi cosa ti posso raccontare? Le canzoni se mi vengono in mente te le scrivo.
Hai capito che bella vita che facevamo? Adesso son più furbi, fan tutto a macchina.
Allora invece stavi lì a mollo. C'erano dei pesci d'acqua che ogni tanto ci passavano tra i piedi e sentivi gridare: Ohi, un pèss!
Ma quella delle rane mi è rimasta proprio impressa. Le vercellesi le prendevano, poi
-tic tic-
e via nel sacchetto. Adesso fanno a pugni per mangiare le rane! Mi è rimasto tanto impresso quel lavoro lì.
Sentivi -tic tic- ste gambine!

Questa qui te l'ho insegnata?

La Violetta la va la va,
la va sul campo la sìra insugnèda
che gh'era il su Gigìn che la rimirèva.
Si.
Ah, alora l'è semper quèla.

C'erano due ragazzi in cascina, così tutte facevano a gara per piacere al fiòl d'al padròn. Eran due bei ragazzi quelli, me li ricordo. C'era sempre una che veniva fuori: Ieri sera son steda a parlèr col fiòl dal padròn! Mo lèsa stèr! Le dicevamo.
A ballare c'era sempre da discutere perché i ragazzi di Vercelli prendevan sù noi e lasciavano lì le vercellesi. Allora c'era sempre da dire.
Una sera uno dice ad una mia amica: Signorina, balla? Lei risponde: No, sono impegnata. Al secondo ballo lui le chiede: Signorina, balla? Lei: No, sono impegnata. Al terzo ballo nessuno la fa ballare allora il ragazzo va da lei e le dice: Signorina, è libera? Lei: Si, sono libera. E lui: Allora viva la libertà! E se ne va. E lei che gli urlava:
Ignùrànt, fetént d'un stùpid!
Quando andavamo alla balera, siccome di soldi non ce n'era, prendevamo una gasosa in tutta la sera. Se rimanevano senza ci veniva la rabbia e gli dicevamo: al sabato non siete mìcca capaci di far provvista di gasosa?
Ah, eravamo dei bei clienti, clienti di gasosa!
-E il vino?-
Eh, il vino era nelle osterie. Non c'era mìcca tanto vino, e nemmeno l'acqua di adesso. L'acqua della fontana c'era!
Quella stoffa lì che ti dicevo, ci devo avere una fotografia.
L'ha trovata la Giovanna, la figlia della Linda. Salta fuori questa fotografia d'una bella dònna. Le ho detto: At vist, mò? N'ero mia brùta come son brùta adès!
I momenti più belli che ho passato io sono alla risaia. Perché sai, eravamo in tante, tutte del paese. Si stava insieme. Eravamo contente.
Pensa te che non mi viene in mente una canzone. Si cantava sempre. Ah, spetta:

Bandiera rossa la trionferà,
Viva il comunismo e la libertà!

-Beh, nonna, questa è famosa-
Eh. Questa la cantèven sémper, specialmente in treno.
-I padroni non erano contenti immagino-
No, no. Non erano contenti.
-C'erano tanti comunisti a Serra?-
Tanti. Allora erano tutti comunisti. Serra era rossa. Anche Pavullo era rossa. Anzi, Serra non era rossa però cantavamo lo stesso.
Chi non era rosso erano solo i signori, gli altri erano tutti rossi.
Anche a Vercelli non erano rossi, eran tùt democràtic. Eran tutti ricchi. Tutte cascine di riso. C'eravamo solo noialtri che eravamo dei disgrasiè. Eravamo proprio i più povrètt dopo la guerra.

E' lè il trambéllético che viene dalla serra,
la va al vien per terra con gran velocità.

-Il trambéllético?-
Si, lèsa stèr, che belle canzoni! Quant'anni son passati, mama.
Ce ne era una del siòr padròn: Siòr padròn dalle belle braghe bianche. Eh si, perchè loro erano sempre tutti eleganti. Loro stavano in cima all'argine, mica dentro!
Insomma, diceva: Tira fuori le palanche, i soldi, che andìm a cà.
Erano gentilissimi i padroni. Quando ti salutavano ti davano la mano e ti facevano tanti auguri.
Pensa quanto ci guadagnavano! Non ci pagavano nemmeno mille lire al giorno.

Silenzio. Ricorda, sorride e ricomincia.

Non immaginate neanche cosa sia la risaia.
Una volta c'era una mondina in televisione. Diceva che è il lavoro peggiore di tutti. E' vero.
Poi, dopo, eravamo tutti contenti, eravamo giovani e ci accontentavamo di poco.
Prima di partire mia mamma ci faceva una bottiglia di Vov, il liquore con l'uovo. Prima di lavorare ne bevevamo un bicchierino e poi via che andavi. Eh, allora non c'era mica tanto mal di fegato.
Non ingrasèv mìa! Io ero 42 chili, pensa te. Non c'era mica tanto colesterolo, non c'era. Eppure andavamo come i fulmini, andavamo.
Eh, queste cose non le dimentichi, non si dimenticano mìcca.


Parole di Pia Rovina,mia nonna. Un pomeriggio davanti ad un caffè, autunno 2009.
Enrica

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