mercoledì 28 aprile 2010

Cairo, 11 Febbraio 2010

Su una panchina dell'areoporto scrivo. Egitto virtuale, che non posso calpestare. Il mio volo da Milano era in ritardo di due ore, così ho perso il volo seguente e mi ritrovo qui con un ragazzo etiope conosciuto in aereo. Si chiama Simachew, ha 25 anni e parla un inglese impeccabile. Ha vissuto gli ultimi due anni in Europa, tra Francia e Italia per un master. In Etiopia lo stato paga gran parte dei costi dell'università, ma una volta laureati è necessario lavorare per il governo finchè non si salda il debito. Così Simachew ora viene spedito a centinaia di chilometri da casa, a fare l'insegnante. Sarà maestro di matematica in una città vicino ad Awasa. E' molto comunicativo e desidera parlare. Gli chiedo della situazione politica etiope e delle elezioni di maggio. Si fa serio. La sua risposta è sconfortante. Dice che è arrivato ad odiare la politica, che desidererebbe davvero starne fuori, ma le condizioni lo obbligano ad occuparsene. Che queste elezioni sono senza significato e non saranno diverse dalle precedenti. Dice che Meles è un buon comunicatore e riesce ad influenzare la mente delle persone. Dice falsità ma le dice bene. Non posso non pensare all'Italia.
Gli chiedo quale sia il modo per cambiare le cose. Si guarda attorno, parla avoce bassa. Dice di non saperlo, ma che di certo non è la politica. La politica è un equilibrio di compromessi ed interessi. Intelligente ma disonesto. L'educazione è una via, ma per insegnare e apprendere è necessario essere liberi di esprimersi. In Etiopia non è possibile. Io sono contro il governo, ma se il governo lo sapesse mi arresterebbe. L'opposizione in Etiopia non esiste. I rappresentanti delle opposizioni, che non siano fittizie, sono tutti in carcere. Alcuni condannati a morte. Non c'è speranza politica per il mio paese -mi dice- Io spero di trasferirmi negli stati uniti.
Per il resto del viaggio parliamo di film e di sport, insospettabili sovversivi. Ci salutiamo pesanti. Aspettiamo maggio.

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