![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgxQPKWyUdc_owKInfF0cqPjxahWB0jQrWswFv40PcZx39BEhkDpI-EE6KQNfsRZV79P4GOo_WVmyklfnLTW03-WW85ZW2o-q1MX-Ev-coAzRTN4gwLTstPOAJxzwtpNO4UENladQ_1m9k/s320/SAM_5631.JPG)
A mio padre.
Arriva prevedibilmente puntuale, calda di sole umida di pioggia.
Ne sento il presagio nell'aria. Umore amaro e riconoscibile.
«Chi sei, figlia?» Le chiedo. Quasi per gioco, quasi per noia.
«Oggi sono noia» Mi risponde.
«Accomodati, ti aspettavo».
Entra nella stanza, scirocco del deserto, afa padana.
Chiudo il libro che stavo leggendo.
Siede e tace come un amico che viene da lontano ma non ha niente da raccontare.
Presenza familiare ma muta.
Assenza. Specchio.
«Cosa fai qui se non hai niente da dirmi?»
«Aspetto. Come sempre, papà».
«Cosa aspetti?»
«Che tu viva».
Osservo i fiori sul suo vestito sbiadito. Gialli, spenti. Per lei sono ornamento, per me un inno ad ogni fine.
Mi chiedo perché abbia scelto proprio quell'abito. Tento di immaginarla di fronte all'armadio mentre pensierosa scorre le dita tra le stoffe, estrae l'abito e lo indossa. Buffa parodia di primavera.
Passa qualche istante. Sospensione fresca, onniscienza.
«Sono qui» mi dice «per raccontarti degli anni che corrono come lucertole di cortile, del tuo tempo speso a contemplarle senza tendere la mano per afferrarne la coda, senza stringere nel pugno un qualche senso caldo, rettile.
I tuoi giorni si sciolgono al sole e tu ancora non ne senti il calore. Voglio cantarti delle nostre città affollate, delle strade che vivono di toni stranieri e lingue vagabonde, come sinfonie d'organo. Canti zingari. Danze balcaniche. Voglio raccontarti di mercati, di profumi, di fruscio di dita sulle stoffe, delle urla gabbiano dei venditori. Voglio parlarti della nostra gente forte, di terra e di lavoro, di torrente, montagne e barricate. Di vino rosso e arie d'opera.
Voglio dirti ancora di pietre e di radio, di bandiere e di idee, di vent'anni, di me...».
Interrompo con uno sguardo il fluire doloroso delle immagini. Sono aghi.
«Conosco queste cose, sono stato giovane e le ho vissute. Ora il tempo è un sacco da riempire, sempre troppo vuoto e troppo pesante».
«Sei un vecchio albero di sole radici ancorato alla terra. Certo sei saggio e conosci tutte le cose, ma non le ami più, e se non le ami non le respiri. Se non lasci che siano il tuo ossigeno non muoverai un passo».
Mentre mi risponde resta immobile come fosse oracolo di saggezza antica, atavica.
Ride. Acqua che sgorga dalle rocce. Biblica.
Sono condannato da un giovane vestito liso, a fiori gialli.
Le offro un caffè silenzioso, le chiedo dell'università e degli esami.
Esce come è entrata, volteggiando con noncuranza.
Resta un suono opaco di sandali di cuoio.
Apro la finestra e riprendo a leggere.
«Quel libro vorrebbe parlare di vita ma lo fa senza amore, come te.» direbbe lei.
Dal negozio sulla strada salgono voci ed un profumo speziato di carne arrosto.
Carne halal. Un piacere permesso, sacro.
L'arabo del venditore mi ricorda il deserto che non ho mai visto,i lunghi passi beduini.
Penso ai miei passi, alle distanze che non so più coprire nemmeno in sogno.
Poi la immagino camminare per la strada. L'orlo del vestito accarezza l'asfalto, quasi a conquistare ogni luogo su cui danza, ogni lembo di vita che attraversa.
Spazio e movimento sono per lei due dimensioni ancora totalmente spontanee. Esigenze.
L'aroma si leva dal negozio come fumo sacrificale. Omaggio ad una divinità nomade di tende e di sabbia, di spazi e tempi eterni.
Mi inebria.
Inspiro profondamente e mi alzo.
Mi sembra quasi di odorare la vita.